L’eremo di San Venanzio

da | Feb 9, 2018 | Architettura | 0 commenti

Foto di Mauro Vitale

“Più in là, incassato tra due monti (il monte Urano e il monte Mentino), come in una spaccatura, il romitorio pende sopra una roccia rotonda, giallastra che pare un gran blocco d’oro. Per tutta la strada fino al romitorio, da Raiano a San Venanzio, rumorio di acque, ruscelletti che scendono fino all’Aterno”.

Così Benedetto Croce, in una serie di appunti presi durante un suo soggiorno a Raiano, descrive le gole di San Venanzio, uno dei luoghi più pittoreschi della montagna abruzzese, dove la Valle Subequana si apre verso quella Peligna in uno stretto passaggio che segna un panorama emozionante e selvaggio.

Le gole, nel cui orrido tumultua e spumeggia l’Aterno sono un vero e proprio patrimonio naturalistico, ambientale e faunistico, a cui si aggiungono importanti emergenze geologiche e storiche, tanto che l’intera zona è stata tutelata con l’istituzione di una apposita Riserva denominata delle “Gole di San Venanzio”.

Probabilmente, proprio per queste caratteristiche, il luogo accoglie un complesso cultuale in cui si svolge una devozione che sembra perpetuare e rifunzionalizzare un pensiero animistico la cui origine si perde in un tempo proto-storico.

Origine del culto
Si tratta del culto di San Venanzio martire, di cui una Passio, riportata negli Acta Sanctorum già nel XI secolo, narra le nobili origini romane, la vita e la morte affrontata con straordinario coraggio.
Nato a Camerino, verso il 218 d.C. dal senatore Soprino e dalla nobile Deodata, che lo educarono alla religione cristiana, subì il martirio, per decapitazione, il 18 maggio 251.
Sempre la citata Passio vuole che la testa, nel cadere, rimbalzasse tre volte facendo, in tal modo, sgorgare altrettanti zampilli d’acqua dalla terra, per la qual cosa il Santo acquista l’epiteto di “acquaiolo”.
La leggenda vuole anche che Venanzio, in compagnia del maestro Porfirio, per sfuggire alla persecuzione di cui era oggetto, riparasse per qualche tempo nella Valle dell’Aterno, eleggendo a romitorio una cavità tra le rocce scoscese.

Tuttavia le celle addossate alla gola e quasi celate dalla vegetazione, non sembrano potersi far risalire prima del XI o XII secolo, mentre la chiesa, che poggia su un sistema di archi, e l’articolato complesso che scende fino alla riva del fiume attraverso “la scala santa”, è databile al secolo XV, come dimostrano i resti di alcune pitture votive ancora presenti sui muri.
Dal corridoio che costeggia le celle si accede anche alla cappella delle Sette Marie, dove è conservato un pregevole Compianto composto da diciassette grandi figure realizzate in terracotta policroma.

Le sculture che risalgono al 1510, malgrado il pessimo stato di conservazione, rivelano, specialmente nel gruppo centrale delle Marie, una notevole personalità artistica che, Venanzio Damiano Fucinese riconduce alla mano di Gianfrancesco Gagliardelli da Città Sant’Angelo.
Tutto intorno la pietà popolare ha individuato sulla roccia le orme miracolose e le tracce del passaggio del Santo. Così i pellegrini toccano devotamente alcuni esempi di lusus naturae in cui vedono la forma impressa, del corpo, del gomito e del piede di San Venanzio.
Il 18 maggio, fin dalle prime ore del giorno, i pellegrini, giunti non solo da Raiano e dalla Valle dell’Aterno, ma anche dall’Aquilano e dal Pescarese, cominciano ad affollare l’eremo. Dopo aver visitato l’altare del Santo, usano strofinarsi sulle pareti della roccia circostante, soprattutto su un incavo in cui il santo sarebbe stato solito riposare. Altri si siedono sul così detto sedile di Santa Rina, per guarire dai dolori alle reni, altri ancora depongono sull’orma del piede un sasso, che dopo le funzioni religiose provvedono a ritirare per conservarlo come reliquia.

Fa parte dei rituali praticati, dopo essersi bagnati nelle acque dell’Aterno, risalire attraverso la Scala santa fino alla cappella superiore, in una sorta di cunicolo stretto che mantiene i caratteri penitenziali, purificatori e simbolici dei riti di passaggio.Prima di lasciare l’eremo i pellegrini, per consuetudine, raccolgono nei prati vicini le piante di stipa pennata, una graminacea dal lungo ciuffo filiforme, detta localmente cienciapallante o lino delle fate.Un tempo i devoti erano soliti giungere al santuario la sera precedente e dormire nel luogo sacro, ripetendo il rito della incubatio in attesa che il Santo manifestasse in sogno la propria volontà numinosa.
Il giorno della festa, infine, i giovani ingaggiano tra loro, un’ardita gara di destrezza per conquistare una bandiera, issata sul punto più alto e scosceso della gola, secondo il più classico principio dei rituali di passaggio alla classe adulta.

Appare evidente come le pratiche iniziatiche, litiche, idriche e dendroforiche (la conquista della bandiera, il trasporto e il toccamento delle pietre, l’immersione nell’acqua, la raccolta di una particolare pianta) ripetano le forme di un antico culto primaverile, dedicato ad un eroe che, come farebbe supporre il sostrato culturale di questi luoghi, potrebbe essere Ercole, divinità pastorale e transumante a cui le tribù italiche dedicavano santuari aerei e montani.

Sostituito altrove dall’Arcangelo Michele, anch’egli rappresentato nell’aspetto di un giovane guerriero, qui Ercole o Heclus nella forma italica, passa la mano, in un processo che mostra tutti i caratteri della continuità culturale e in uno scenario che conserva tutti gli elementi del contesto naturale, all’adolescente Martire che vinse eroicamente le prove dei tormenti per acquisire lo status superiore della santità. Una festa, dunque, questa di San Venanzio a Raiano, che possiede, come poche altre, i valori di quei beni antropologici immateriali da salvaguardare perché, dopo aver attraversato i millenni, ancora oggi definiscono l’identità culturale dell’Abruzzo.

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