Miserere mei Deus

da | Apr 10, 2020 | Cultura | 0 commenti

Testo di Giampiero Perrotti*

È l’ora dell’inoltrato imbrunire quando lungo la ripida gradinata della cattedrale di San Giustino iniziano a scendere i simboli della Passione di una delle più antiche processioni del Venerdì Santo

quella di Chieti. Giù, nella piazza gremita di folla attendono di avviarsi in corteo le confraternite dalle chiese del centro storico e  della periferia, ognuna con cotte di vivaci svariati colori, con croci, labari artistici lampioni di cristallo.

Portati a spalla dai membri incappucciati dell’Arciconfraternita del Sacro Monte dei Morti appaiono, in un subitaneo tacere delle voci, il simulacro del Cristo martoriato adagiato su una lettiga ricoperta da un drappo di velluto trapunto con doppi ricami in oro argento (1827), in un andare che ormai non conosce più pianto, la dolente Madonna avvolta in veli funerei.

La testa del corteo ha già svoltato per via De Lollis quando, dal portale in pietra finemente lavorata del Duomo, fino all’ampio rettangolo della piazza dominata dal possente campanile iniziato nel 1335 e portato a compimento nel 1498, riversano, come sonoro torrente di montagna, gli oltre trecento tra cantori e musici del Miserere. Quel Miserere dell’abate teatino Saverio Selecchy (1708-1788) che fa unica la processione di Chieti. Per le decine di migliaia di fedeli, assiepati lungo corso Marrucino e le vie della città vecchia, è l’inizio di un atto di confessione collettiva.

Ma quel lento sfilare di una processione nella quale la città trova le ragioni più profonde della propria identità per gli uomini e le donne dell’Arciconfraternita del Sacro Monte dei Morti, che da secoli hanno la responsabilità del sacro rito,per quanti altri contribuiscono al suo realizzarsi, è il momento conclusivo di una serie di eventi e di incontri che si ripropongono immutabili nel trascorrere dei decenni.

Tutto prende il via all’inizio della Quaresima, nel giovedì successivo alle Ceneri, con le prove del Miserere, che si protrarranno per settimane, da parte dei coristi e dei musici. E poi, di volta in volta, le ripetute riunioni organizzative con i cerimonieri e gli aggregati alle sacre funzioni dell’Arciconfraternita, con i priori delle dodici confraternite cittadine, con i valletti che, durante i riti della Settimana Santa e in processione, indosseranno eleganti livree di foggia settecentesca. Di tutte, pero, la cerimonia di più toccante significato, con grande riservatezza e solo eccezionalmente aperta agli operatori della comunicazione, è quella che ha luogo la mattina del Venerdi Santo nel chiuso della cappella e della sacrestia dell’Arciconfraternita.

In questo secondo locale da un imponente armadio del XVIII secolo, le consorelle del pio sodalizio sotto la guida della Priora, danno gli ultimi ritocchi alla statua della Madonna vestita il mercoledì precedente, lontano da ogni sguardo maschile, con gli abiti del dolore, il cuore trafitto da uno stiletto d’argento. Quella attuale, dal volto di squisita fattura, fa la sua comparsa nel sacro corteo intorno al 1910 in sostituzione di un precedente simulacro, oggi scomparso, portato per la prima volta in processione nel 1833.

Contemporaneamente, nell’adiacente cappella, i componenti del direttivo fanno scendere da una teca incassata nella parete e protetta da una lastra di cristallo, ben in alto alle spalle dell’altare, la statua del Cristo morto, una scultura settecentesca di scuola napoletana.

Adagiata su una lettiga l’immagine viene portata ad altezza d’uomo da un marchingegno ottocentesco mosso mediante un verricello. Pur nascosta durante tutto il resto dell’anno agli occhi dei fedeli da un drappo cremisi, la presenza del Salvatore è il punto focale ed emozionale della cipolla eretta nel Seicento (probabilmente su una precedente struttura) e nel secolo successivo impreziosita cocchi in oro zecchino, opera dell’architetto scultore comasco Gian Battista Gianni.

Tutta la decorazione, che svolge i temi riguardanti l’attività del pio sodalizio e della Passione nei suoi vari e drammatici momenti, è stata riportata all’originario splendore da un restauro del 2010.
Terminati i preparativi, il Cristo morto, adagiato sulle mani del Governatore e dei confratelli del direttivo che fanno da lettiga umana, e l’Addolorata vengono portati in corteo nella cripta medioevale e da questa, in attesa della processione serale, nel segretariato della luminosa chiesa superiore lungo le cui navate laterali sono stati già posizionati i sette simboli della Passione realizzati nel 1855 dai fratelli Anzellotti e dal pittore Paolo Aloè, su disegni e sotto la guida dell’artista teatino Raffaele Del Ponte (1813-1872).
Al rientro del sacro corteo, il Cristo e la Madonna, con la guardia d’onore dei confratelli del Sacro Monte dei Marti dei valletti in livrea, se esposti e alla pietà e alle preghiere del fedeli fino al mezzogiorno di sabato santo quando vengono riportati sempre in riservato corteo, nella cappella. Mentre l’Addolorata scompare nella sacrestia la statua del Salvatore è nuovamente deposta sulla lettiga che il Governatore con gesti misurati riposiziona in alto.

La cerimonia acquista la simbologia non della deposizione nella tomba ma, con l’elevazione del corpo del Cristo e il suo scomparire agli occhi degli astanti, quella del Suo rite alla gloria dei Cieli. Ai lati, in corrispondenza dell’altare, due angeli oranti e sopra la teca le immagini della Vergine col Bambino che soccorre le anime del Purgatorio, opera del pittore napoletano Paolo De Matteis (1622 – 1728), e della Madonna del latte, affresco quattrocentesco (oggetto di una recente riscoperta).
Tra poche ore, mentre nel cuore dei fedeli palpitano ancora le note del Miserere, sarà Pasqua di Risurrezione.

pubblicato sul numero 121 di D’Abruzzo

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