Addio allo storico aquilano Raffaele Colapietra

da | Apr 27, 2023 | In evidenza, Personaggi | 0 commenti

Si è spento all’età di 92 anni lo storico aquilano Raffaele Colapietra. Occupò il suo spazio nei media nazionali e internazionali nei giorni tragici del terremoto dell’Aquila, quando fu conosciuto come quel “vecchio pazzo” che non volle lasciare la sua casa nonostante l’ingiunzione della Protezione Civile. Ma anche in quel momento i tanti che già lo conoscevano vollero vedere in lui il saggio che incarnava la speranza, la certezza che l’Aquila sarebbe risorta. E si aggrapparono alla sua sicurezza. Sapevano inoltre che era difficilissimo fargli cambiare abitudini. La genialità controllata dalla sistematicità, caratteristiche che rendono importanti le sue ricerche storiche, si ritrovano nella sua vita privata in cui le regole vanno rispettate, senza cadere nella pedanteria. Enzo Fimiani, nel suo importante libro “Raffaele Colapietra, l’uomo, lo studioso, il cittadino” pubblicato nel 2004 e punto fermo per chi volesse conoscere Raffaele Colapietra, lo definisce “uno dei principali storici italiani della seconda metà del Novecento; uno studioso che per molti anni, tra l’altro, ha rappresentato quasi da solo la storiografia abruzzese (intendendo, con tale termine, non chi si è impegnato nello studio delle più o meno rilevanti cose locali, bensì chi ha avuto la semplice ventura di nascere in terra d’Abruzzo per poi occuparsi, a vario titolo e profondità, di ricerca storica)”. Basti pensare ai suoi primi studi e alle importanti pubblicazioni su Felice Cavallotti e Leonida Bissolati, sul pontificato di Leone XII, sul Viceregno di Napoli per arrivare alle migliaia di recensioni, saggi, volumi sulla storia del Mezzogiorno, dell’Italia, dell’Europa. 

Riportiamo un’intervista che ci ha rilasciato tempo fa in occasione di un incontro con la redazione pubblicato sulla rivista D’Abruzzo n. 115.

Lei ha condotto in particolare gli studi sulla nostra regione e su L’Aquila?
Io, nato e vissuto all’Aquila fino alla giovinezza, ho sempre studiato l’Aquila e in genere l’Abruzzo come qualsiasi altro oggetto di studio, con il distacco sentimentale-emotivo dello storico che studia e ricerca evitando qualsiasi tipo di retorica ed enfatizzazione. Del resto per carattere e per convinzione di ricercatore mi è sempre stato facile separare il lato emotivo da quello professionale. E, quando sono stato lontano dall’Abruzzo, sono stato molto bene, non ho sentito la lontananza o addirittura sofferto. Sono lieto, contento di essere abruzzese, non orgoglioso. 

Perché?
Perché l’Abruzzo è una regione medio-piccola, degnissima di essere studiata a dovere, purché alla sua molteplice complessità non si sovrapponga una uniformità retorica che non ha ragion d’essere.

A proposito della nostra regione, le sembra appropriata la definizione “Abruzzo forte e gentile”?
L’ha coniata nel 1881 Primo Levi che ne fece il titolo di un suo racconto di viaggio pubblicato nell’anno successivo, subito dopo essere stato nella nostra regione. Giornalista e collaboratore di Crispi, venuto per preparare la campagna elettorale dell’anno successivo, pubblicò il racconto per una sorta di captatio benevolentiae. Per lui queste due qualità si materializzavano in Teofilo Patini e Francesco Paolo Michetti: cervello, forza di pensiero di Patini e occhio, visività naturalistica espressiva di Michetti. Primo Levi esaspera a fini giornalistici questa dicotomia purtroppo rimasta a lungo come sintesi retorica di una realtà molto più variegata.

Insisto sui luoghi comuni, visto che la sua profonda conoscenza della storia abruzzese le permette di revisionarli. Abruzzo uguale pastori e pifferari? E il ruolo dei viaggiatori del Grand Tour?
Nel ‘700 e ‘800 i viaggiatori del Grand Tour, non essendoci la litoranea che oggi ha permesso il grandissimo sviluppo di Pescara (ma non altrettanto dell’Abruzzo), entravano nella nostra regione quasi tutti da Venafro, risalendo da Napoli, attraverso il Piano delle Cinquemiglia. Colpiti dalla suggestione delle montagne, degli eremi e dei paeselli vedevano con occhi romantici l’Abruzzo, l’Abruzzo profondo che io credo sia il vero Abruzzo, che però non è certo quello della regione attuale. Per me l’Abruzzo vero è costituito dal Sangro, dalla Maiella, dalla provincia di Chieti e dal basso Aquilano, territorio questo da governare come una sorta di grande parco nazionale valorizzando montagne, boschi, fiumi. A essi si deve aggiungere l’Alto Molise. Sulmona e Lanciano dovrebbero essere capoluoghi di questo Abruzzo verde. La Marsica e l’Aquilano sono un mondo completamente diverso, a cominciare dal cosiddetto capoluogo che non è che una periferia privilegiata(!) di Roma

Dunque la Maiella è la vera montagna abruzzese. E il Gran Sasso?
La Maiella e il Morrone sono le montagne che caratterizzano l’Abruzzo. La Maiella ha una funzione dominante, è veramente Maiella madre, visibile anche dall’Aquila. Il Gran Sasso non ha avuto nella storia la stessa funzione catalizzatrice, ma soltanto quella di raccordo boscaiolo tra L’Aquila, Teramo e l’altopiano di Campotosto. 

Parliamo di futuro? Parliamo dei nostri giovani che incarneranno il futuro?
Ho insegnato dalle medie e all’Università, ho seguito tesi di laurea, ma non frequento i giovani da più di venti anni. Adesso ho solo contatti occasionali. Certo, al di là della violenza e della corruzione – gli aspetti più sconvolgenti, che ci sono comunque sempre stati – la cosa più grave che vedo nel mondo attuale è l’idiozia, la difficoltà a fare un ragionamento sistematico. Ciò dipende dal fatto di poter sapere qualsiasi cosa senza conoscerla veramente. La battaglia di Waterloo? si fa presto su internet a sapere quando si è svolta e da chi fu combattuta, ma non si riesce ad inquadrare il fatto. I giovani hanno la possibilità di sapere tutto immediatamente, ma alla fine non conoscono niente se arrivano alla meta senza sapere come, senza appropriarsi del metodo sistematico di conoscenza. La curiosità fine a se stessa li disabitua a ragionare. Ciò dipende dall’ estrema tecnicizzazione e dall’estrema superficialità dell’american way of life che sta invadendo il mondo.

 Ma lei è ottimista circa il futuro?
Il mondo di oggi cambia molto rapidamente, al fuori di ogni possibilità di previsione e stanno scomparendo certi modelli di vita su cui si è retta la civiltà europea. Prendiamo gli ultimi avvenimenti della Turchia: è evidente la scomparsa dei valori della democrazia, del regime parlamentare. E non possiamo non registrare l’immensa speranza e l’immensa delusione generati dalla fine del colonialismo. Abbiamo 100 milioni di profughi. Gli Stati coloniali sono diventati formalmente indipendenti, ma cosa ci danno in termini di cultura e di organizzazione politica?  Difficile dire se dipende da loro o dal fatto che l’imperialismo è rimasto in altra forma. La guerra di indipendenza dell’Algeria era alimentata dagli stessi valori del nostro Risorgimento. La guerra del Vietnam tanto lunga e sanguinosa cosa ha prodotto di nuovo? Di promettente per la storia dell’umanità?  Sono delusioni di fatto, o per usare termini razionali e non sentimentali come spetta ad uno storico, fallimenti. Promesse non mantenute. Io ho 85 anni, ho vissuto la primavera del 25 aprile e Tangentopoli. Con Tangentopoli ho sperato di vedere un altro 25 aprile, ho sperato che la società  distruggesse attraverso la legge l’apparato di corruzione e desse il senso della liberazione facendo venir fuori forme oneste oltre che anche genuine. Ed è da dire inoltre che l’opinione pubblica è ormai corazzata nei confronti di notizie di questo tipo e sembra non reagire più di tanto.

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