Riportiamo l’intervista a Franco Summa (pubblicato sulla rivista D’Abruzzo n.115 autunno 2016) a ricordo dell’artista scomparso il 25 gennaio.
Urban Rainbow
di Francesca Rapini
In occasione del settantaseiesimo anniversario del Premio Michetti a Francavilla, è stata inaugurata la mostra Urban Rainbow, un doveroso omaggio alla carriera di Franco Summa ed un’importante occasione per ripercorrere alcune tappe della sua opera creativa ed artistica.
Le parole del critico Enrico Crispolti, che ha presentato la mostra, ci illustrano Franco Summa come “uno dei maggiori punti di riferimento sulla scena internazionale, i riconoscimenti internazionali, a cominciare da Frank Popper, nel 1980, ma già nella Biennale veneziana del 1976, lo hanno attestato appunto da decenni”.
Il titolo della mostra Urban Rainbow richiama il contesto ambientale urbano in cui l’artista ha esplicato tutta la sua attività nel corso degli anni, in quella dimensione del “fare arte che si pone come obiettivo di contribuire alla definizione e realizzazione di un’idea di città, intesa come filosofia di vita, proiezione nel mondo di un desiderio di bellezza e manifestazione della capacità di porsi in relazione consapevole e creativa con i dati dei contesti ambientali, architettonici e naturali”.
Con queste parole Franco Summa spiega la sua esperienza artistica all’interno del libro Arte urbana (Carsa Edizioni) che accompagna l’evento. La mostra è stata concepita come un percorso intellettuale ed emotivo in cui le opere sono state collocate nello spazio espositivo appositamente “riplasmato” per ottenere particolari visioni prospettiche, ci spiega Franco Summa che abbiamo incontrato durante il finissage e ci ha accompagnato per ripercorrere alcune tappe della sua carriera.
Nei suoi interventi è sempre presente la relazione tra uomo arte e ambiente. Ci spiega come e quando nascono le sue opere?
Nascono a metà anni ’60, dalla consapevolezza che l’arte contemporanea dovesse ritrovare una possibilità di incontro e dialogo con un pubblico più vasto di quello dei luoghi istituzionali e quindi dalla necessità di un intervento artistico nella città, in relazione con il contesto ambientale urbano e della vita sociale e coinvolgente per la collettività. Nell’opera “Luogo di relazioni” una delle prime, pongo, infatti, il problema del rapporto del soggetto con l’opera d’arte e il tema della partecipazione. L’opera era costituita da una struttura abitabile, uno spazio in cui il vistatore non si limita alla contemplazione dell’oggetto ma vi interagisce, lo modifica e crea situazioni rinnovate per sé e per gli altri fruitori. Quindi l’elemento si riplasma continuamente generando una serie di possibilità di lettura e di scorci prospettici, quale metafora della necessità del cittadino di partecipare alla realizzazione della città, consapevolmente e con valutazioni critiche, che oggi purtroppo sembrano essersi perdute. Indicativa della valenza del rapporto cittadino-ambiente in un approccio critico è anche l’opera Histoire d’O del ’76, un segno urbano nel cuore di Pescara, aperto a molteplici interpretazioni che riscrive il contesto ambientale “storico” riproponendolo ad una lettura critico-immaginativa.
Il suo arcobaleno culturale, elemento identitario della sua attività, appare in una delle opere degli anni ’70 “Un arcobaleno in fondo alla Via”, presente anche in mostra in un’ immagine collocata in una specifica prospettiva all’interno degli spazi espositivi.
Ci spiega come e quando nasce questo arcobaleno culturale dai colori timbrici e squillanti come definiti da Dorfles?
La mia dimensione ambientale e l’arcobaleno erano annunciati e premessi nella mostra anche dalla singola colonna all’ingresso del Mumi sulla quale sono intervenuto per creare un asse o fulcro dal quale si irradia l’arcobaleno. Il mio arcobaleno non è la riproduzione dei sette colori dell’iride, ma una composizione di 12 colori primari ripetuti 2 volte, 24 fasce di colori disposte secondo criteri di composizione pittorica e artistica, per cui non è naturale ma è culturale, per rimettere in moto la cultura. Ho scelto il colore nelle mie opere perché possiede delle enormi potenzialità espressive e comunicative e perché lo ritengo un metalinguaggio che va al di là della necessità di un codice, perchè comunica attraverso le emozioni; il colore rappresenta la varietà della vita con le sue molteplici possibilità. Nell’intervento realizzato a Città Sant’Angelo l’arcobaleno sui 24 scalini della ex chiesa di Sant’Agostino riscriveva il contesto non solo dello spazio fisico, ma anche di quello mentale e comportamentale diventando un segno significante che modificava l’intera prospettiva del corso della città e riusciva a coinvolgere il cittadino in un percorso mentale diverso. Non era solo un intervento in sé concluso site specific ma in relazione, ed è questo il valore importante per me, cioè riuscire ad instaurare un dialogo significativo tra l’intervento, che può anche essere di pittura o plastico, che riesce a trasfigurare in un senso molto forte e coinvolgente il contesto ambientale urbano.
In ogni opera c’è un’attenzione alla cultura, alla storia, all’architettura e al presente di una data realtà socio-ambientale urbana. È necessario elaborare ogni elemento della città per restituire un’opera che si ponga come segno-significante che influisce anche dinamicamente e riscrive il senso del contesto in cui essa si colloca. L’opera a Città Sant’Angelo ha provocato anche una discussione animata e aperto una prospettiva spaziale, urbana e concettuale e cioè come rivivere e ripartecipare ciò che ci è pervenuto dalla storia. Noi abbiamo un grande patrimonio, anche i piccoli centri urbani hanno il loro valore e vanno tutelati e recuperati, reinterpretati nella contemporaneità con la capacità di valutazione critica per fare anche degli interventi di arte contemporanea. La valenza storica e le architetture sono valori importanti e imprescindibili per l’arte ambientale. Molti artisti della street art operano nella totale indifferenza o non comprensione del contesto in cui si collocano. Questi interventi, a mio avviso, non risolvono il problema del degrado ambientale della città che ha bisogno non solo di pitture, ma di una serie di fattori che ricostituiscano, a volte, un’ identità sociale smarrita.
Sono stati importanti anche gli anni della sua docenza a Pescara?
L’esperienza al liceo artistico “Misticoni”, sperimentale ante litteram, nel quale introducemmo anche tecniche nuove quali il fumetto e la fotografia, fu importante per me per la sperimentazione sul colore, alimentata da un proficuo scambio con gli studenti, nel clima di fermento artistico e di fervore creativo che si respirava a Pescara negli anni ’70, quando nella città operavano figure del panorama culturale quali Diego De Sisti e Nando Filograsso, solo per citarne alcune.